Non equidem miror, fi ftat victoria tecum, Strataque Cretaeam bellua tinxit humum. Non poterant figi praecordia ferrea cornu: Ut te non tegeres, pectore tutus eras. Illic tu filices, illic adamanta tulifti: Illic, qui filices, Thefea, vincat, habes. Crudeles fomni, quid me tenuiftis inertem? At femel aeterna nocte premenda fui.
Vos quoque, crudeles venti, nimiumque parati; Flaminaque in lacrimas officiofa meas; Dextera crudelis, quae me fratremque necavit: Et data pofcenti, nomen inane, fides! In me iurarunt fomnus, ventusque, fidesque, Prodita fum cauffis una puella tribus. Ergo ego nec lacrimas matris moritura videbo; Nec, mea qui digitis lumina condat, erit? Spiritus infelix peregrinas ibit in auras: Nec pofitos artus unget amica manus? Offa fuperftabunt volucres inhumata marinae, Haec funt officiis digna fepulcra meis? Ibis Cecropios portus; patriaque receptus Cum fteteris urbis celfus in arce tuae. Et bene narrabis letum taurique virique, Sectaque per dubias faxea tecta vias; Me quoque narrato fola tellure reli&tam: Non ego fum titulis furripienda tuis, Nec pater eft Aegeus; nec tu Pittheidos Aethrae Filius; auctores faxa fretumque tui.
Di facerent, ut me fumma de puppe videres! Moviffet vultus moefta figura tuos.
Nunc quoque non oculis, fed, qua potes, afpice
Haerentem fcopulo, quem vaga pulfat aqua. Afpice demiffos lugentis in ore capillos;
Et tunicas lacrimis, ficut ab imbre, graves. Corpus, ut impulfae fegetes Aquilonibus, horret: Literaque articulo preffa tremente labat.
Non te per meritum, per meritum, quoniam male ceffit, adoro,
Debita fit facto gratia nulla meo:
Sed ne poena quidem. Si non ego cauffa falu
Non tamen eft, cur fis tu mihi cauffa necis. Has tibi, plangendo lugubria pectora laffas, Infelix tendo trans freta longa manus. Hos tibi, qui fuperant, oftendo moefta capillos. Per lacrimas oro, quas tua facta movent: Flecte ratem, Thefeu; verfoque relabere vento. Si prius occidero; tu tamen offa leges.
Remigio Vanniño, der von seinem Geburtsort den Beinamen Fiorentino erhielt, wurde 1518 zu Florenz gebo ren, und starb daselbst 1580. Er war ein Geiftlicher vom Dominikanerorden, und besaß viele theologische, historische und philosophische Kenntnisse, die er auch in verschiednen, in diese Wissenschaften einschlagenden Schriften rühmlich bes nuzte. Man hat verschiedne poetische Werke von ihm; unter andern auch eine metrische Uebersehung der Psalmen. Am glücklichsten aber war er in der Ueberseßung der heroiz schen Briefe Ovid's, die zuerst zu Venedig, 1560, 12. herk aus kam, von welcher aber G. Conti zu Paris 1762. eine sehr saubre neue Ausgabe in gr. 8. mit Vignetten, besorgte. Zur Vergleichung mit dem eben jest gelieferten Original theile ich daraus die zehnte Epistel der Ariadne an den Thes feus mit.
Men rabbiofa di te, men cruda ed afpra Ho ritrovato ogni aípra fera e cruda : Ne di te peggio era fidata altrui.
Et io queste parole e quefti versi
Ti ícrivo, o Tefeo, da quel lido, d'onde Senza me ne portò la vela il legno, Dove il mio fonno m'ingannò, dov'io Tradii me fteffa, e dove tu tendesti
A' dolci fonni miei si amari inganni.
Venuta era l'ora, onde la terra
Si fparge intorno di gelate brine, E cantan gli uccellin tra' rami ascosti, Quand' io (non fò s'addormentata, o defta, Mà fonnacchiofa pure) o Tefeo mio, Ambe le man fon per toccarti mossi Ne trovandovi alcuno, a me le traffi: E poi di nuovo pur ritento, e ftendo
Remigio fio, Le braccia mie per tutto il letto intorno, Ne trovandovi te, cacciaro il fonno Le paure e gli orrori, e sbigottita Mi lancio fuor de le tradite piume, E del vedovo letto, e come il fonno M'avea fparfi i capei, così gli fvelfi, E mi percoffi ad ambe mani il petto: E perch' ancor nel ciel lucea la luna, Guardo s'io veggio altro che'l lido e l'acque, Ne poteron mirar queft' occhi miei Altro che l'acque e'l lido, ond'io melchina I piedi infermi (i cui dubbiofi paffi Facea l'arena, e la paura lenti)
Or quinci or quindi lagrimando moffi: E mentre, ch' io per tutto il lito andava Teleo chiamando; i cavi laffi folo Mi rifpondeano, e mi tornavan poi Il tuo bel nome, e la mia voce in dietro: E quante volte io ti chiamava, ed effi Tante ti richiamar, volendo quafi Porger pietofi a me dolente aita.
Ivi a l'onde vicin rimiro un monte, Ne la cui cima gli arbufcei fon rari, Che rolo dentro, ed incavato, face Pel percuoter de l'onde, a l'onde fcoglio: E perch' audace mi facea e forte L'animo infieme, e la paura, e'l duolo, Vi faglio fopra, e'l largo mare intorno Intorno guardo e quindi veggio (ahi lassa Ch'i venti ancor mi ritrovai crudeli) Le vele tue tutte gonfiate, e tefe Del gran foffiar di ben rabbiofo Noto.
per ch' io vidi, o che veder mi parve, Io diventai via più che ghiaccio fredda, E mezza morta in fu lo fcoglio caddi; Ma'l fier dolor non mi lasciò star troppo Tramortita per terra, ond' io mi fveglio, Mi fveglio dico, e con quell' alta voce, Ch' io poteva maggior, l'amato nome
Chiamai più volte, e diffi: à fuggi, o Tefeo, O Tefeo fcelerato; eh torna, e volgi La nave in dietro, che vi manca quella, fuo merto non mancar dovrebbe.
Io dicea quefto, è quel che poi la voce Efprimer non potea, l'efpreffe fore Il percuotermi tutta, e furon miste E le percoffe, e le parole infieme. E fe pur forfe non udivi, io feci, Perche vedeffi almen, fcagliando in aria Ambé le braccia, a la tua nave il legno. Dipoi legai fopra una lunga verga I miei candidi veli, a' tuoi compagni Ed a te crudo ricordando, ch' io Era reftata in fu l'arena fola:
Ma poi, ch' a gli occhi miei (laffa) fu tolto Il poterti veder, poi che fpartite Furon le vele, allor difciolfi a gli occhi L'amaro pianto, e quefte luci meste Si feron per gran duol bagnate e molli, Che dianzi fur così languide e inferme. Mà che potevan far queft' occhi miei Altro che lagrimar me stessa, poi Che di mirar le vele tue finiro? Ond' io men giva fcapigliata errando Qual Baccante, che mentre a' facri altari Di Bacco, i voti, e i facrifici porge Da lui commoffa, infuriata corre O riguardando il mar, fopra una pietra Gelata mi fedei pallida e fmorta, E non men fasso fui, che faffo il feggio. Spesso ritorno al letto, il quale aveva Si dolcemente noi la fera accolto, Mà non doveva poi renderne all' alba Ambi noi infieme, e come io posso tocca In vece tua, le tue veftigia belle; E quei panni felici abbraccio e bacio, Che le tue membra fer tepidi, e caldi, E co' larghi miei pianti, il bagno, e dico:
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